Whitney Houston: muore a 48 anni una delle stelle più brillanti e tormentate
A volte il successo può essere fatale quanto e peggio dell'insuccesso: la storia di Whitney Houston, morta ieri a Beverly Hills per cause ancora da accertare, è una parabola macabra che dimostra come si possa passare rapidamente dall'essere "la più amata" alla "più dimenticata" nel breve volgere di un mattino.
Tutti ricordano la teoria di successi della bella e giovane Whitney: nata a Newark, a due passi da New York, nel 1963, è cugina di Dionne Warwick, figlioccia di Aretha Franklin, anche se la figura più importante resterà la madre Cissy, cantante anche lei.
Entra nel coro della chiesa a undici anni e mostra le proprie doti d'eccezione. Poi tutto troppo in fretta: a quindici anni è corista per Chaka Khan che incide "I'm Every Woman", singolo che poi Whitney stessa trasformerà in una hit mondiale qualche anno più tardi. A vent'anni Gerry Griffith della Arista Records la nota mentre canta con la madre in un nightclub di New York City. Nel 1985 esce "Whitney Houston" che diventerà un successo mondiale grazie a singoli come "All At Once" e "You Give Good Love".
È solo l'inizio: arriveranno altre hit a manciate, come "I Wanna Dance with Somebody Who Loves Me", "So Emotional", "Where the Broken Hearts Go". Ai critici che le rimproverano di trascurare le radici black per avventurarsi nel territorio del pop risponde: "Se vuoi avere una carriera lunga, devi comportarti in un certo modo, ed è quello che io ho fatto. Non me ne vergogno". Una frase che oggi suona beffarda: Whitney ha una carriera splendente, distrugge i record di vendite, fa il tutto esaurito a Wembley e al Madison Square Garden, incide "One Moment in Time" per le Olimpiadi del 1988, canta una versione memorabile dell'inno americano al Tampa Stadium nel 1991 quando i New York Giants sconfiggono i Buffalo Bills 20-19 in uno dei Superbowl più memorabili della storia, sia per motivi sportivi, sia perché nel frattempo le truppe Usa cercano per la prima volta di piegare Saddam Hussein a colpi di bombe.
Ma una carriera lunga è qualcosa di diverso: dopo un paio di fidanzamenti stellari (con il quarterback Randall Cunningham prima, e con Eddie Murphy poi), nel 1989 Whitney Houston conosce il cantante R&B Bobby Brown, e lo sposa nel 1992. Nel '93 nasce Bobbi Kristina Houston Brown, unica figlia di Whitney. Ma Bobby non è proprio una bella persona: prigione, alcol e botte sono il menù abituale del matrimonio.
Nel '92 arriva "The Bodyguard", il primo ruolo importante al cinema per Whitney, che come al solito porta un grandissimo successo di pubblico, anche grazie alla hit "I Will Always Love You", e la stroncatura della critica.
Nell'ottobre '94 Whitney è alla Casa Bianca ad accogliere fra gli altri Nelson Mandela, appena eletto presidente del Sudafrica. Sarà l'ultimo momento scintillate. Arrivano altri film (come "Waiting to Exhale") e altri dischi, ma il declino è già iniziato: è esploso il rap, la concorrenza è aumentata, Whitney non regge il passo. Comincia a comportarsi da diva e da irregolare: ritardi di ore alle interviste e sui set fotografici, concerti cancellati, talk show a cui non si presenta.
Nel 2000 lei e il marito sono fermati in un aeroporto delle Hawaii a causa di marijuana nelle valigie. E benché nelle interviste continui a dire che non si droga, Whitney Houston precipita testa in avanti nel tunnel, insieme al marito, dal quale divorzia nel 2006. Dopo anni di performance imbarazzanti, tour annullati e nessun progetto coerente, nel 2009 Whitney torna in testa a qualche classifica grazie a "I Look to You". Ma non è più tempo da 45 giri, abiti con i lustrini, voci dal sapore antico: il successo ai tempi di iTunes e Twitter è di breve durata, soprattutto per chi è vista come un'artista del passato. Così i fantasmi hanno di nuovo il sopravvento. A volte il talento non basta.
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