Red Hot Chili Peppers "I'm with you", la recensione
È difficile ricordare che, quando i Red Hot Chili Peppers emersero nei primi anni '80, fossero davvero emozionanti.
Non solo il quartetto californiano si esibiva spesso e volentieri nudo sul palco, ma il suo mix di funk, metal e hip-hop apparve da subito rivoluzionario.
Tre decenni e 65 milioni di dischi venduti dopo, i RHCP hanno pubblicato il decimo album in studio "I'm with you", che anche le recensioni più generose sono state costrette a definire "solido" e "tradizionale" per la band.
Il disco si apre nel caos: il rombo primordiale di una band che si appresta a una jam session, forse per la prima volta dopo lungo tempo. Si può quasi vedere il cantante Anthony Kiedis in piedi in un angolo, in attesa di entrare nella mischia.
Il rumore fiorisce in un pezzo danzereccio alla Californication, Monarchy of Roses, in cui Kiedis si chiede, "Do you like it rough, I ask/And are you up to task?". Potrebbe anche riferirsi a sé stesso.
Con "I'm with you" i Red Hot Chili Peppers interpretano una grande band in un ruolo inatteso: quello dei perdenti.
Sono passati cinque anni da quando l'ultimo album dei Chili Peppers, il doppio Stadium Arcadium. Nel 2009, hanno perso il chitarrista John Frusciante, una spaccatura che avrebbe potuto significare la fine della band.
"I'm with you", però, li porta al sicuro dal baratro, intatti come se nulla fosse successo: "Ticktock I want to rock you like the Eighties", Kiedis canta in un verso del singolo The adventures of rain dance maggie. E lo fanno davvero.
Flea ha detto di aver riascoltato i suoi dischi dei Rolling Stones durante la scrittura di "I'm with you" e per certi versi il nuovo disco ricorda gli Stones dell'era post-Brian Jones, quando il leggendario gruppo cercò di tornare alle radici ed evolvere da lì.
I RHCP e il produttore Rick Rubin non sono riusciti a colmare il vuoto lasciato da Frusciante, il cui potente lavoro stratificato di chitarra e gli arrangiamenti hanno definito gli album più recenti della band.
Sono tornati invece gli elementi essenziali del punk-funk che Kiedis, Flea e il batterista Chad Smith hanno inventato: groove molto ritimici che si aprono in ampi, solari ritornelli pop. La tendenza appare in diverse sfumature: dai ritmi africani in Ethiopia all'eleganza di Meet me in the corner, alle atmosfere latine di Did I let you know.
Il nuovo chitarrista Josh Klinghoffer, che ha lavorato con Beck e Gnarls Barkley, è adatto per dare nuova forma ai vecchi trucchi. È strutturato e sfuggente, stende riff e melodie in cui Frusciante avrebbe suonato assoli brucianti: basta ascoltare Factory of faith o il passaggio dal rumore alle serrate morbidezze di Annie wants a baby.
Questa non è solo una rinascita musicale i Red Hot Chili Peppers si ricaricano anche a livello emotivo: una perdita che ossessiona l'album è la recente morte di un loro caro amico, Brendan Mullen.
Brendan's death song, infatti, inizia come un'elegia acustica (You'll know it's your jam, it's your goodbye, Kiedis sussurra) che poi si apre, mentre Kiedis considera la propria mortalità.
La morbida, intima ballata Police station segue un vecchio amante attraverso Hollywood e funge anche da specchio per la storia di Los Angeles.
I momenti di picco in "I'm with you" mettono in equilibrio spavalderia e sensibilità. Sopra il funk di Look Around, Kiedis rappa una visione estatica: "Soft walk to horizon/One big crash that no one dies in".
È l'apocalisse California-style, il ritrovo di 4 anime gemelle dopo anni di rock. I nuovi-vecchi Red Hot Chili Peppers, sempre solidi anche se le scintille sono andate.
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